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Not close to the emergency exit

Le ricetta di questo post sono beryooni e persian lasagne.
Non ci sono foto relative al post. Ma ci sono foto di Persepolis.
  

Penso sia giunto il momento di concludere il mio viaggio in Iran. Ho aspettato a scrivere questo post. Concluderlo è come lasciarsi andare alle spalle quello che è stato. Non volevo succedesse.

L’Imperial Bazaar di Isfahan è immenso. Rispetto ai bazaar marocchini e indiani è ordinato e rilassante. Forse anche rispetto ai nostri mercati italiani. Le persone ti mettono a loro agio. Nessuno urla per invogliarti a comprare da lui. Nessuno cerca spudoratamente di fregarti dei soldi. Ognuno è dedito alla propria arte. E se ti avvicini ti incantano del loro sapere. C’è chi a mano con delle presse stampa motivi floreali su tappeti, c’è chi, sempre con le mani, impasta piccole porzioni di beryooni da servire alla folla affamata, c’è chi batte colpi di martello su fogli di rame concentrandosi esclusivamente sul suo colpo. E’ forse la zona del rame la più caotica. Osserviamo. Compriamo del gaz, dolci fatti di acqua di rose, zucchero e pistacchio. Mangiamo del gelato. E’ caldo.

Dal mercato ci spostiamo verso il Khaju Bridge, fatto costruire da Abbas II. Seduti sotto gli archi del ponte ascoltiamo cantare antiche melodie persiane. Sembra di essere in un palazzo. Non c’è nemmeno il fiume. Il caldo lo ha prosciugato. Possiamo quindi camminare sul letto del fiume e osservare il ponte mentre cala il buio.

La sera ci spostiamo in una paese vicino a casa di amici. Frutta. Thè. Shisha. Solita routine. Odio non parlare persiano.

Beryooni

Ingredienti

  • 3 cipolle
  • 1 kg manzo macinato
  • 30 gr burro salato
  • 1 tazza brodo di carne
  • 33 cucchiaini di curcuma
  • 166 cucchiaini di pepe
  • 25 cucchiani di cannella

Stufare le cipolle nel burro finché diventano dorate. Aggiungere la curcuma e la carne e lasciar cuocere finché la carne si dora. Aggiungere il brodo, la cannella e il pepe. Abbassare il fuoco e lasciar andare per 45/60 minuti. Servire con pane.

Non c’è ancora luce quando partiamo per Shiraz. Sono ancora addormentata quando incontriamo Amir alla stazione dei bus. Amir ha un volto strano, non molto rassicurante. Avevamo contattato Amir e sua moglie Nasim su couchsurfing e ci avevano dato disponibilità per ospitarci. Ci presentiamo e ci conduce in macchina a casa sua. Il caldo di Shiraz è soffocante. E’ quasi impossibile camminare sotto il sole. L’asfalto è cocente. Amir e’ in realtà cordialissimo. Mi sbagliavo. A casa conosciamo Nasim. Lei è bella e solare. Lui un ingegnere con la passione per la fotografia, lei un tecnico sanitario che diventa la sua modella. Sono giovani, sui trent’anni e parlano un inglese perfetto. Stanno cercando di emigrare in Australia e da diversi anni sono alle prese con la burocrazia per poter lasciare il loro paese ed entrare in uno nuovo alla ricerca di possibilità che adesso possono solo immaginarsi. Sono innamorati. Ci raccontano del loro matrimonio e ci mostrano il video delle nozze. Sono felici. In Iran sono sistemati bene, hanno una casa piccola ma ben arredata e colorata e un buon salario. Ma si sentono stretti in questo paese, hanno una mentalità molto aperta. Non hanno mai viaggiato all’estero, ma conosco moltissime culture. Da otto anni ospitano gente di diverse nazionalità per migliorare il loro inglese e per viaggiare tramite i racconti degli altri. Ci chiedono dell’India. Mi chiedono dell’Italia.

La sera siamo invitati al cena dal fratello di Amir, Ehsan.Prima di cena ci fermiamo al centro commerciale. E’ il compleanno della moglie di Ehsan e vogliamo comprarle un regalo. Proviamo diverse sciarpe, dai motivi e colori più variegati. Alla fine optiamo per una collanina. Ehsan è sui trent’anni anche lui, sposato, con una figlia di circa dieci anni.  Lui lavora col petrolio, non mi ricordo esattamente, mi pare fosse un chimico. Ehsan è anche un tatuatore. Non può diventare la sua professione, in Iran è illegale il tattoo. Ma lui è ben attrezzato e con gran voglia e lavora ugualmente, in casa. Ha diversi tatuaggi, frutti dei suoi studi, tutti in posti ben nascosti. Colgo l’occasione e gli chiedo se ne può fare uno anche a me.

Così il giorno dopo ci troviamo a casa di Amir e durante il pranzo mi preparo per farmi segnare indelebilmente. In cambio avevo anche promesso che avrei fatto delle lasagne. Ma è tardi e dopo poche ora ho il volo che mi porta a Dubai. Sono così costretta a dare direttive ad Hamed e Nasim che cucinano, mentre cerco di muovermi il meno possibile, permettendo ad Ehsan di disegnare. Le lasagne sono ottime.

Persian lasagne

Ingredienti

  • 12 lasagne
  • 300 gr marzo macinato
  • 1 pacco di formaggio in busta (diceva essere mozzarella)
  • concentrato di pomodoro
  • 1 carota
  • 1 cipolla
  • 50 gr burro
  • 50 gr farina
  • 1/2 l latte
  • sale
  • pepe

Scaldare tre cucchiai d’olio e far stufare la carota e la cipolla tritate. Aggiungere la carne macinata, lasciare colorire. Salare e unire il concentrato di pomodoro diluito in 2 bicchieri d’acqua e cuocere per mezz’ora. Insaporire con un pizzico di pepe. Fare la besciamella: in un pentolino lasciare fondere il burro, unire la farina mescolando velocemente. Diluire il composto versando a filo il latte tiepido e continuare a mescolare fino a quando la besciamella inizia a bollire. Salate, diminuire la fiamma e cuocere per circa venti minuti. Insaporire con un pizzico di pepe. In una pirofila imburrata fare un primo strato di lasagne, distribuire sulla superficie alcuni cucchiai di ragù e di besciamella, spolverizzare con formaggio grattugiato e distribuire fiocchetti di burro. Fare un altro strato di lasagne e condimento, continuare fino a esaurimento degli ingredienti. Finire con besciamella e ragù. Mettere in forno a 180° per mezz’ora.

Con ancora le lasagne sullo stomaco, Amir ci accompagna in aeroporto. Salutiamo Amir e io e Hamed ci dirigiamo all’ingresso. Ci salutiamo. Sembrava che non ci saremmo più rivisti, per lo meno non in un tempo stabilito. Con gli occhi pieni di lacrime mi avvicino al banco del check-in. Come mai piange? Mi dispiace lasciare l’Iran. E ho paura di volare. L’uomo sorride. Non si preoccupi, andrà bene. Mi dica che posto preferisce. Non vicino all’uscita di emergenza.

Le ricetta di questo post sono beryooni e persian lasagne.
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De officiis

Il 16 gennaio 1979 lo scià Reza Pahlevi scappa dall’Iran. Il 5 febbraio Bazargan viene incaricato da Khomeini di formare un governo islamico, proclamato dopo due giorni. Il 17 febbraio iniziano le esecuzioni degli oppositori.

Tra l’ottobre del 1978 e il febbraio del 1979, Michel Foucault si reca in Iran interessato alla rivoluzione in pieno svolgimento in quegli anni. Scrive una serie di articoli, pubblicati dal Corriere della Serie, in cui motiva la sua entusiasta adesione al movimento rivoluzionario. Con questa lettera, scritta da nell’aprile del 1979, Foucault prende le distanze dall’insidiato governo di Bazargan.

Lettera aperta a Mehdi Bazargan

Signor Primo Ministro,
lo scorso settembre – quando parecchie migliaia di uomini e di donne erano appena stati uccisi a mitragliate per le strade di Teheran – mi avete concesso un incontro. Fu a Qom, a casa dell’ayatollah Chariat Madari. Una buona decina di militanti impegnati nella difesa dei diritti dell’uomo vi avevano trovato rifugio.
Alcuni soldati, con pistole mitragliatrici in pugno, sorvegliavano l’entrata del vicolo.
Voi eravate allora Presidente dell’Associazione per la difesa dei diritti dell’uomo in Iran. Avevate bisogno di coraggio. Coraggio fisico: la prigionia vi minacciava. E poi la conoscevate già. Coraggio politico: il presidente americano aveva recentemente annoverato lo Scià tra i difensori dei diritti dell’uomo.
Molti iraniani si irritano per il fatto che oggi si diano loro lezioni brucianti. Essi avevano dimostrato che i loro diritti sapevano riconoscerli e farli valere. E si rifiutano di pensare che la condanna di un giovane nero nel Sudafrica razzista sia paragonabile alla condanna a Teheran di un boia della Savak. Chi non lo comprenderebbe?
Da qualche settimana, avete fatto irrompere i processi sommari e le esecuzioni affrettate. La giustizia e l’ingiustizia sono il punto sensibile di tutta la rivoluzione: è da lì che esse nascono, è in essa che spesso si perdono e muoiono. E poiché avete giudicato opportuno farvi allusione in pubblico, ho sentito il bisogno di ricordarvi la conversazione che abbiamo avuto sull’argomento.
Avevamo parlato di tutti i regimi che hanno oppresso i popoli invocando i diritti dell’uomo. Voi avete espresso una speranza: nella volontà di costituire un governo islamico, così generalmente affermata allora dagli iraniani, si sarebbe potuta trovare una garanzia reale per questi diritti.
Ne avete dato tre motivazioni. Una dimensione spirituale, dicevate, pervadeva la rivolta di un popolo ove ognuno, in favore di un mondo diverso, rischiava tutto (e, per molti, questo ‘tutto’ non era né più né meno che essi stessi): e non era il desiderio di essere governati da un “governo di mollah” -proprio voi avete usato, credo, questa espressione. Ciò che io ho visto, da Teheran ad Abadan, non smentiva le vostre parole.
Avete detto che l’Islam, nel suo spessore storico, nel suo dinamismo d’oggi, era capace di affrontare, su questo punto dei diritti, la temibile scommessa che il socialismo non avrebbe retto meglio – è il minimo che si possa dire – del capitalismo. “Impossibile” dicono oggi quelli che credono di saperla lunga sulle società islamiche o sulla natura di tutte le religioni. Io sarei molto più modesto di questi, non vedendo in nome di quale universalità si impedirebbe ai mussulmani di cercare il loro avvenire in un islam di cui essi si appresterebbero a creare, con le loro mani, il volto nuovo. Sull’espressione ‘governo islamico’ perché sospettare immediatamente dell’aggettivo ‘islamico’? La parola ‘governo’ basta, da sola, a tenere desta la vigilanza. Nessun aggettivo – democratico, socialista, liberale, popolare – libera tale parola dai suoi obblighi.
Avete detto che un governo, proclamandosi islamico, limiterebbe i considerevoli diritti della semplice sovranità civile, attraverso obblighi fondati sulla religione. In quanto islamico, questo governo si riconoscerebbe vincolato a una serie supplementare di ‘doveri’. E sarebbe obbligato a rispettare tali vincoli, in quanto il popolo potrebbe rivolgere contro di lui quella religione con lui condivide. L’idea mi è sembrata importante. Personalmente, sono un po’ scettico sul rispetto spontaneo dei governi verso i propri obblighi. Ma è importante che coloro che sono governati si possano mobilitare per ricordare che non hanno semplicemente ceduto dei diritti a coloro che li governano, ma che intendono imporre loro dei doveri. A questi doveri fondamentali nessuno governo è in grado di sfuggire. E, da questo punto di vista, i processi che si svolgono oggi in Iran non possono certo non inquietare.
Non c’è niente di più importante nella storia di un popolo di quei rari momenti in cui esso si mobilita al completo per abbattere il regime che non sopporta più. Niente è più importante per la sua vita quotidiana di quei momenti, così frequenti, di vendetta, in cui il potere pubblico si ripercuote contro un individuo, lo proclama suo nemico e decide di abbatterlo: mai come in quel momento ci sono dei doveri da rispettare, i più essenziali. I processi politici sono sempre delle pietre di paragone.
Non perché gli accusati non sono mai dei criminali, ma perché il potere pubblico si manifesta senza maschera, e si sottopone al giudizio giudicando il suo nemico.
Il potere pubblico pretende sempre di farsi rispettare. Ora, è proprio in queste occasioni che esso deve essere assolutamente rispettoso. Lo stesso diritto di difendere il popolo, di cui si fa carico, gli impone dei doveri molto pesanti.
Bisogna – è un imperativo – assicurare a coloro che vengano processati il maggior numero di mezzi di difesa e di diritti. Egli è ‘manifestamente colpevole’? Ha contro di lui tutta l’opinione pubblica? E’ odiato dal suo popolo? Ciò, giustamente, gli conferisce dei diritti, tanto più intangibili; è dovere di colui che governa dargliene atto e garantirli. Per un governo non devono esistere ‘ultimi tra gli uomini’.
Per ogni governo è un dovere anche mostrare a tutti, dovrei dire ai più oscuri, ai più ostinati, ai più ciechi di coloro che vengono governati, in quali condizioni, come, e in nome di cosa l’autorità può rivendicare per sé il diritto di punire in suo nome. Una punizione di cui ci si rifiuti di rendere conto può senz’altro essere giustificata, ma sarà sempre un’ingiustizia. Allo sguardo del condannato. Anche allo sguardo di tutti i giudicabili. E questo dovere di sottomettersi al giudizio, quando si pretende di giudicare, credo che un governo lo debba accettare sotto lo sguardo di tutti gli uomini del mondo. Non più di me, immagino, voi ammettereste il principio di una sovranità che non debba rendere conto a nessuno se non a se stessa. Governare non va da sé, non più che condannare, non più che sparare. E’ bene che un uomo, non importa chi, fosse anche all’altro capo del mondo, si possa mobilitare perché non sopporta che un altro sia punito o condannato. Non è immischiarsi con gli affari interni di uno Stato. Coloro che protestano per un solo iraniano costretto al supplizio nel fondo di una prigione della Savak si immischiano con l’affare più universale che esista.
Forse si dirà che la maggioranza della popolazione iraniana nutra fiducia nel regime che si mette in piazza, dunque nelle sue pratiche giudiziarie. Il fatto di essere accettati, benvoluti e rispettati da tutti non attenua i doveri dei governanti: ne impone di più rigidi.
Io non ho, beninteso, Signor Primo Ministro, alcuna autorità per indirizzarmi a voi in questo modo. Salvo il permesso che voi mi avete dato, facendomi comprendere, dal nostro primo incontro, che per voi governare non è un diritto tanto desiderato, ma un dovere estremamente difficile. Voi dovete fare in modo che questo popolo non abbia mai a pentirsi della forza senza concessioni attraverso la quale esso stesso ha appena ottenuto la sua liberazione.
Michel Foucault – Le Nouvel Observateur, n.753, 14-20 aprile 1979

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The Half of the World

Le ricette di questo post è goosh-e fil.
Le foto sono qui.

Mi commossi quasi, quando ai miei occhi si aprì, con tutta la sua maestosità, la piazza Naqsh-e Jahan.

Era primo pomeriggio. Le due circa. La piazza era immersa nella luce calda ed accogliente del sole. Era caldo. Molto caldo. In piazza vi erano poche persone. Qualcuno mangiava un gelato all’ombra di qualche cespuglio, qualche bambino correva ridendo. Per me fu un caloroso benvenuto (in stile iraniano) quello che la piazza ci stava offrendo:  la serenità e la calma che si respiravano appagarono la sensazione di disorientamento che una piazza così grande può dare.

Camminammo sotto i portici che tracciano il perimetro della piazza. Per quanto è grande venivano qui organizzate gare di polo. A testimonianza ci sono due piloni, che fungevano da porte. Osservammo la piazza attentamente. Ne ammirammo l’elegante architettura.

La piazza Naqh-e Jahan, conosciuta anche come piazza dell’Imam, faceva parte dell’opera di ricostruzione della città di Isfahan voluta dallo shah Abbas. Abbas fu “il grande” della dinastia dei Safavid. Un brillante stagista. Un talentuoso amministratore. Un mecenate dell’arte. Un despota senza regole. Nel 1598 decise di far spostare la capitale da Qazvin alla più centrale Isfahan, ricostruendo questa città per celebrare la bellezza e la potenza della Persia. Come si può ben dedurre, questa operazione diede straordinaria importanza alla città, che diventò una delle città più belle e più grandi del mondo.

Isfahan viene da allora chiamata “la metà del mondo”.

Se hai visto Isfahan, hai visto metà del mondo.

(Detto popolare)

E questo era senza dubbio vero. Ad Isfahan si concentrarono diverse culture e religioni: armeni, cinesi, italiano, inglesi, spagnoli. Entrando ad Isfahan ci si poteva imbattere con veramente metà del mondo. Lo shah Abbas aveva infatti stretto rapporti con queste popolazioni e si era sempre dimostrato tollerante nei loro confronti. La popolazione di Isfahan raggiunse in quegli anni il mezzo milione di abitanti. Abbas era cosi orgoglioso del suo capolavoro che lo amava mostrare e organizzava grandi ricevimenti nel suo palazzo dal quale si poteva ammirare in toto l’eleganza delle sua piazza. Egli fu senz’altro un sovrano dedito alle arti e alla bellezza, e visitando il suo palazzo non si può fare a meno di notarlo.

La piazza viene circondata dai simboli delle tre principali componenti del potere in Persia: il Bazaar Imperiale, il potere economico; il palazzo Ali Qapu, il potere dello shah e la Masjed-e Shah, il potere religioso.

Eravamo seduti proprio di fronte la moschea quando alcuni uomini e donne vestiti di nero ci si avvicinarono. Li sentii fare mille domande, e io non capii nulla fino a quando Hamed non mi prese per un braccio e mi condusse fuori dalla piazza. Hanno detto che se ci rivedono in piazza ci faranno dei problemi. Fummo banditi dal centro della bellezza e del potere della Persia anche noi, come molti prima di noi, sotto volere dello shah Abbas, ossessionato dalla paura di essere assassinato. Fummo fortunati. Molti furono da Abbas condannati al buio o alla morte.

La cacciata dalla piazza ci permise di rifugiarsi in uno dei posti più caratteristici che abbia mai avuto modo di vedere: la sala da thè persiana.

Queste stanze, di solito due, una per soli uomini, l’altra per uomini e donne, si trovano nascoste in qualche piccola via traversa. Sono un piccolo tesoro da scovare.

Già dalla porta notai la stravaganza di questo posto. Nell’atrio, prima della porta, decine e decine di lampade, di ogni forma e colore, erano appese al soffitto affiancate da cornici, anch’esse di diversa forma l’una dall’altra, raffiguranti immagini più svariate. Non avevo però idea ancora di quello che mi aspettava all’interno: centinaia di lampade, centinaia di cornici, statuine, foto, strumenti musicali, armi. Un’accozzaglia di oggetti che ricopriva ogni centimetro cubo delle pareti. L’ambiente era stretto. Il soffitto basso. La luce soffusa. E all’interno nuvole di fumo grigio dal sapore fruttato. Già, perché quello che si fa in queste sale è bere thè e fumare shisha. Ci diedero anche dei magnifici dolci da gustare, i cosiddetti Goosh-e fil, letteralmente orecchie di elefante.

Goosh-e Fil

Ingredienti

  • 1 tazza di zucchero
  • 1 cucchiaio di cardamomo grattuggiato
  • 60 gr pasta fillo
  • 2 tazze olio

Unire zucchero e cardamomo e mischiare bene.  Tagliare la pasta fillo in rettangoli di 7×10 cm. Gentilmente piegare questi rettangoli al centro, formando un nastro. Far riscaldare l’olio e friggere 2/3 nastri alla volta per 30 secondi. Far raffreddare e cospargere con lo zucchero e il cardamomo.

Sarei rimasta in quello sgabuzzino dall’odore magico per tutto il giorno. E per i giorni successivi. Ma dovevamo ancora vedere il bazar e raggiungere poi la nostra meta finale, Shiraz.

Ma questa è un’altra storia.

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On the way to Shiraz stop at the carpet shop

Rimanemmo soli. Hamed ed io. Lasciammo Teheran che era buio. La stazione dei bus Jonoob era gremita di persone che salivano e scendevano dai bus, che trascinavano valigie, che si abbracciavano, che si salutavano per poi rivedersi chissà quando. Tabriz. Mashhad. Rasht. Shiraz. Yazd. Esfahan. Sentimmo chiamare il nostro autobus. Anche qui l’ospitalità iraniana ebbe modo di farsi notare: ci consegnarono un piccolo box rosso di cartone, con dentro un succo di frutta, un sandwich, dei biscotti, delle mandorle, e ci augurarono buon viaggio.

L’ospitalità

Una volta il califfo Mutasim ordinò di decapitare un criminale. Il malfattore, rotolando nella polvere ai piedi del califfo, lo supplicò: “Per amor di Dio e del suo profeta, sii misericordioso, concedimi una coppa d’acqua e dopo aver appagato la mia sete farai di me ciò che vorrai.” Mutasim, impietosito, comandò che dessero da bere al condannato per esaudirne l’ultimo desiderio. Dopo aver bevuto il condannato secondo l’usanza araba proclamò: “Che Dio ti renda grazia, o principe dei credenti. Ora con questa coppa che mi hai offerto sono diventato tuo ospite! Se è d’uso uccidere un ospite ordina di farlo; altrimenti accordami l’indulto, affinché possa pronunciare ai tuoi piedi le parole del perdono.” Il califfo dovette ammettere che la consuetudine imponeva il rispetto inviolabile per l’ospite e disse: “E’ vero, l’ospite è sacro, perciò ti assolvo. Prometti però di non macchiarti più di delitti.” E dopo l’atto di penitenza lo mise in libertà.

Antica fiaba persiana

Il viaggio sarebbe durato diverse ore. Mi addormentai praticamente subito, cullata dal ritmo andante dell’autobus. Mi svegliai la mattina presto, all’alba. La luce dei primi raggi di sole mi penetrava dentro gli occhi, ma non erano ancora abbastanza forti da riscaldarmi la pelle. Mi sforzai di aprire gli occhi e notai con stupore che l’autobus era quasi interamente rivestito di tappeti persiani. Due parole queste che si sposano bene tra loro.

L’uso di tappetti è frequente in Iran. Non c’è una casa che non ne abbia almeno uno per stanza. E questo sarebbe già poco. Nei villaggi più piccoli o in case più tradizionali, i tappeti prendono il posto del pavimento. Dalla cucina al bagno il tappeto diventa l’unico oggetto di arredamento presente. Sul tappeto ci si sveglia, ci si mangia e ci si ritorna a dormire.  Fui bene informata su questo argomento da un ragazzo che incontrammo in un negozio di tappeti a Isfahan, Farjad, il saggio.

I tappeti si dividono essenzialmente in due categorie: il tappeto persiano ‘da casa’ e quello ‘da nomadi’. La prima categoria deve la sua origine alla dinastia dei Safavidi (1500-1700). Questi monarchi, non trovando i tappeti presenti abbastanza raffinati, ne modificarono la fattura (con nodi più sottili) e crearono disegni più raffinati. Il disegno non venne più fatto a memoria o inventato sul momento, ma venne affidato al lavoro di maestri disegnatori, gli ustad, che si specializzarono principalmente in motivi floreali e curvilinei, curando con attenzione ogni minimo dettaglio e simmetria. La seconda categoria è invece la più antica. Sono questi i tappeti usati dalle tribù nomadi, non solo persiane, durante i loro viaggi. Sono più piccoli, per essere meglio trasportati e sicuramente meno raffinati. Vengono infatti tessuti velocemente, e la velocità giustifica qualche intreccio o colore fuori posto. I disegni di questi tappeti sono geometrici, linee verticali e orizzontali che raccontano un sogno o una paura della donna che li sta tessendo.  Queste linee si incontrano tra loro formando una lingua dei segni. L’aquila, emblema di potenza e di regalità,  il pavone che grazie al suo superbo piumaggio, sembra proteggere dal male, il cammello, portatore di ricchezza e felicità, o il cane, che veniva raffigurato per proteggere il proprietario del tappeto dal furto. Non mancavano simboli dal mondo vegetale, il melograno per esempio. Questa pianta richiede pochissima acqua e cresce su ogni tipo di terreno, quasi a costituire una specie di miracolo e di dono della natura in terre aride e brulle. Lo stesso frutto, con i suoi chicchi dolci e succulenti, sembra di per sé incarnare l’emblema della prosperità: non per niente divenne simbolo di ricchezza e fertilità. Oppure l’albero della vita. Considerando la natura stessa della vita di questa tribù, passata a peregrinare in zone brulle e desertiche, dove la presenza di vegetazione significava la presenza stessa di acqua, non è difficile individuare l’importanza di questo simbolo.  Questi alberi venivano così raffigurati: il sottosuolo, dominato da forze magiche, dove si insinuano le radici, la superficie della terra, regno degli uomini, dove il fusto cresce e si sviluppa, il cielo, luogo del divino, verso il quale si protendono le chiome.

Mentre Farjad ci indottrina su questa, per me sconosciuta, cultura dei tappeti, noi ce ne stavamo lì, seduti a sorseggiare thè, al cospetto di miliardi di fili di lana annodati che raccontavano frammenti di vita. E io non potevo fare a meno di vedere questa piccola giovane donna dagli occhi colmi di sogni, che al barlume di una candela, nell’intimità di una tenda persa in qualche deserto, si affrettava ad intrecciare il suo futuro, per poi mostrarlo con fierezza al padre. E questi fili, che scivolavano agilmente tra le sue dite snelle e  abili, raccontavano il suo desiderio di avere un giorno e un marito e un figlio con i quali vivere in prosperità e protetta contro ogni male e invidia. Questi pensieri mi bloccarono bruscamente quando Farjad ci mostrò un altro tappeto, proveniente da qualche tribù afghana. Era un tappeto recente. I motivi erano diversi, non più animali o alberi, ma bombe e carri armati. Evidentemente sono cambiate nel corso degli anni le paure e i sogni di questi popoli.

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L’immagine del mondo

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Piazza Naqsh-e jahàn, Isfahan, Iran.

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I <3 Teheran -part 3-

La ricetta di questo post è tachin.
Le foto sono qui.

When I was younger, so much younger than today,
I never needed anybody’s help in any way.
But now these days are gone, I’m not so self assured,
Now I find I’ve changed my mind and opened up the doors.

The Beatles

Sono di nuovo a Teheran. Questa volta sarà l’ultima.

Una gradevole sorpresa è stata la visita al Museo di Arte Contemporanea di Teheran (TMOCA). Il museo è stato progetta dall’architetto persiano Kamran Diba e sembra contenere opere dal valore complessivo di 2,5 miliardi di dollari. Gli artisti presenti: Pollock, Kandisky, Monet, Pissaro, Van Gogh, Picasso, Giacometti, Bacon, Ernst, Magritte, Rivera, Warhol, Lichtenstein, Mirò, Braque, Morandi, Duchamp e molti altri. Il museo è adiacente al Laleh Park, uno degli 800 parchi di Teheran.

Uno dei punti forte di questa immensa metropoli è sicuramente la presenza di queste aree verde. Gli abitanti di Teheran si ritrovano spesso a qui a banchettare o semplicemente passeggiare sorseggiando una birra al gusto di banana.

Una sera andai anche io con la famiglia di Hamed. Più che in un parco mi ritrovai in una riserva forestale.  Bevemmo thè, mangiammo Shirini Khoshk, dolci secchi tipici iraniani, e giocammo a volano. Penso che il volano sia uno sport nazionale in Iran. Dovunque vai trovi sempre qualcuno che gioca. Non c’è bisogno di un campo o di una rete. Bastano due racchette e un volano. Giocammo col vento, in pendenza e facendo attenzione al velo che cascava. Ci divertimmo un sacco.

Un’altra mattinata provammo ad entrare in un altro parco. Purtroppo La Squadra del Buon Costume Iraniana non me lo permise. A quanto pare, i miei jeans un pò strappati sul ginocchio offendevano la loro morale.

La Buon Costume Iraniana non permette a due giovani di sessi opposti non sposati di uscire insieme. Il ché comporta una percentuale elevata di matrimoni in giovate età e una conseguente altrettanto elevata percentuale di divorzi. Quindi anche il concetto di ‘uscire a rimorchiare’ è concepito in tutt’altro modo.  Eravamo in macchina con Behnam, un amico di Hamed e suo cugino. Mi avevano già raccontato come si rimorchia a Teheran, ma decisero di farmelo vedere con i miei occhi. Arriviamo in questo stradone enorme, a due sensi. Era mezzanotte passata, e in giro c’erano poche macchine. Ma non qui. Stranamente qui c’era così tanto traffico che si andava a passo d’uomo. Vedi che ci sono macchine con soli uomini  e sole donne. Vedi come si accostano l’una all’altra? E’ così che ci si conosce. Mi giro intorno e noto una processione a due file. Ogni tanto qualche macchina usciva dalla fila, accelerava un pò e subito si rimetteva in ordine vicino ad un’altra. Si avvicinano a noi delle ragazze. Abbassano il finestrino e iniziano a parlare col cugino di Behnam. Non capisco cosa si dicono, ma vedo lui che prende il cellulare e segna un numero. Dopodiché le ragazze si allontanano e il cellulare squilla. Di nuovo frasi per me indistinguibili. Poi lui si gira e ci dice, ho un appuntamento.

Tachin

Ingredienti

  • 2 e 1/2 tazze di riso basmati
  • 2 petti di pollo
  • 3 uova, solo il tuorlo
  • 1 e 1/2 tazza di jogurt naturale
  • 1 cipolla
  • 1/2 cucchiaini di zafferano, sciolto in 3 cucchiai di acqua calda
  • 2 cucchiai burro
  • 2-3 cucchiaio brodo di pollo
  • sale
  • pepe
  • sumac

In una pentola, mettere il petto di pollo con le cipolle. Aggiungere sale e pepe. Aggiungere una tazza d’acqua e portare ad ebollizione. Abbassare il fuoco e cuocere per un ora. Lasciar raffreddare e poi tagliare in piccoli pezzi.  Far bollire 6 tazze di acqua e aggiungere il riso. Far cuocere per circa 10 minuti, finché il chicco risulta morbido agli estremi e duro al centro. Scolare il riso e lavare con acqua fredda. In una ciotola mischiare jogurt, i tuorli d’uovo, sale e pepe. Aggiungere una tazza e mezza di riso e mischiare bene. In una pentola antiaderenti, non troppo profonda, mettere il burro sciolto e un cucchiaio di zafferano e distribuire uniformemente. Aggiungere 2/3 del riso mischiato con jogurt  e distribuire bene sulla superficie, aggiungere i pezzettini di pollo e ricoprire di nuovo col riso e jogurt. Aggiungere il riso rimasto e distribuire uniformemente sulla superficie, premendo. Versare il brodo e lo zafferano sulla superficie. Far cuocere a fuoco medio. Quando inizia a uscire vapore, abbassare il fuoco al minimo e  lasciar cuocere per un’ora finché non si forma la crosta. Una volta pronto, far raffreddare, ribaltare sul piatto da portata e guarnire con sumac.

Dovevamo lasciare Teheran e scendere al sud. Il mio piano era quello di arrivare a Bandar Abbas e da li prendere il traghetto per Dubai, da dove avrei preso l’aereo per Mumbai. Ovviamente quel piano non fu mai rispettato.

Prima di partire, organizziamo una cena a casa di amici. Cuciniamo kabab, beviamo vodka e un qualche liquore fatto da loro in casa (a base di sumac forse), balliamo alla luce di una palla da discoteca anni 80.

Con immenso dispiacere la mattina saluto Teheran. Ma so che ritornerò.

La ricetta di questo post è tachin.
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Masuleh

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I tetti delle case, ai livelli più bassi, sono usati come cortile per le case ai piani superiori. In alcuni case, le strade passano nelle intersezioni tra i tetti.
Questa particolare struttura rende impossibile l’uso di motoveicoli, che dunque sono banditi.

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